Il disincanto
Quando ti regalano un quaderno “perchè tu scrivi”, spesso si ottiene l’effetto contrario, lo guardi e pensi “scrivo? Cosa scrivo?”
Poi lo apri, guardi le pagine bianche e pensi che siano bellissime così: con il non detto.
Si perchè il fascino delle cose taciute ho imparato a subirlo ora, da adulta.
Fino a qualche anno fa ero strenuamente convinta che cercare il confronto fosse la cosa giusta, che i TI AMO, i MI MANCHI, i MI HAI FERITO, andassero sempre e comunque recapitati al mittente.
Poi sono cresciuta, poi ho capito che, alle volte, il dialogo è unidirezionale, parte benissimo e invece di essere rimpallato dall’altra parte, cade e allora, anzicchè essere costruttivo, diventa deleterio.
Ogni tanto ho provato ancora a chiedere “c’è qualcosa che non va?” ma per molti rispondere “no, nulla” è la soluzione più semplice.
Nel disincanto che ho raggiunto e che, sinceramente, non mi dispiace affatto, ho capito che le persone non vanno rincorse o che, quantomeno, non ho voglia di farlo più io.
Giusto o sbagliato che sia, io credo che se vogliono restare, restano
se vogliono spiegarti, spiegano
se vogliono esserci, ci sono.
Il resto si chiama “prendere per stanchezza” e non mi appartiene.
Soffrivo di sindrome da abbandono, ma credo che aver provato ben altri abbandoni, ha fatto sì che su quelli fatti per scelta, io sia anestetizzata, che regga botta.
Non che non mi importi, anzi: ci sto anche male, semplicemente lascio andare.
E lasciar andare non è certo un’azione passiva, anzi: tutt’altro.
C’è tutta la forza e la determinazione di non muovere nemmeno un muscolo per trattenere, di non emettere nemmeno un fiato per convincere, di aprire la porta e lasciar libero il passaggio.
Lasciar andare è una scelta fatta e non subita, e la si affronta per amor proprio, o anche solo perchè è la cosa giusta da fare.
Quando poi si guarda indietro, si scopre la forza che non si pensava di avere e si prova tenerezza per un gesto di difesa di sè.
Lasciar andare non è una resa, ma una faticosa conquista.