I 160.000 passi

Non sono poi molti in una settimana, in una settimana dall’altra parte del mondo.
Ny me ne ha visti fare molti di più, credo.
Ma sono i miei passi, quelli del mio viaggio in Giappone.
Un viaggio progettato, poi sfumato, poi, all’improvviso, conquistato.
C’è stato. Timbro sul passaporto.
Sono sul volo di ritorno e come ogni volta mi chiedo come sia stato, come sia andata.
Inutile chiedersi come sia un viaggio fino a che non ci sono sensazioni ed umori del ritorno, a dirtelo.
Prima del Giappone bisogna liberarsi di aspettative e preconcetti: le prime saranno disattese, i secondi saranno sfatati.
I giapponesi non sorridono mai ma sono sempre sorridenti.
No, non è un nonsense: è proprio così.
E’ il sorriso dell’animo, di chi è tanto discreto da non guardarti quasi mai negli occhi, ma che sta attentissimo ad essere cortese, educato, ospitale, e dedito se sta lavorando.
Sono un popolo ed una terra dalle forti contraddizioni: non sorridono ma sono cordialissimi, lavorano più di tutti al mondo eppure sono dei goderecci che adornano mangiare qualsiasi cosa a qualsiasi ora, si amano ma non si baciano, ascoltano ma non si parlano, non in pubblico intendo, sono sobri e riservati eppure vanno pazzi per delle pacchianate assurde. Sono tanti, tantissimi, eppure riescono a mantenere spazi vitali e di rispetto anche in una metro che più affollata non si potrebbe. I giapponesi nutrono per l’altro un rispetto enorme, lo rispettano così tanto che lo ignorano, non lo guardano, gli coesistono. Ma se serve una mano, ci sono.
Oggi cercavamo un indirizzo in una zona molto poco turistica e un paio di signore hanno deciso di aiutarci prima ancora che noi realizzassimo che eravamo in difficoltà: una a piedi ed una in bicicletta hanno iniziato a girare per il quartiere alla ricerca, senza capire o parlare una parola di inglese. Poi una è andata a bussare ad un vicino, credo fosse “il tuttologo” del quartiere, gli ha spiegato la questione e lui allora è rientrato in casa e ha preso una pianta per farci vedere la suddivisione del quartiere. Alla fine, in barba ad app, navigatori e wifi, la gentilezza ci ha fatto arrivare a destinazione.
Non ti guardano, ma ci sono.
Non ti parlano, ma ci sono.
Non ti conoscono, ma non sei solo.
Non ti capiscono, ma ci provano.
Il tutto contornato da movenze di garbo, e inchini, e ringraziamenti infiniti, e tante, tante scuse perchè non conoscono l’inglese, e nemmeno lo leggono, nemmeno i tssisti di Tokyo, che vogliono l’indirizzo in giapponese.
Ad ogni passo avevo ben chiaro che fossi dall’altra parte del mondo, che fosse un altro mondo. Li aveste visti mentre, appena arrivata, mi hanno piegato e compilato il pass per i treni: sembrava stessero facendo un ricamo a tombolo.
Bhe, io quel pass lo conserverò, perchè la cura richiede cura, la cura porta cura: forse è questo che a noi continua a sfuggire e sfuggirà sempre.
Sarà il Buddhismo, sarà la loro storia tosta, sarà l’indole, ma se doveste chiedermi come sono loro, io direi che SI DEDICANO.
SI, esatto: si dedicano. E’ come se porzionassero il tempo in frammenti, e in ognuno, si dedichino esattamente a quello che va fatto, ma con tutta la concentrazione e la partecipazione che necessita.
Si dorme? Si dorme profondamente, anche in pubblico.
Si mangia? Si mangia con gusto, ovunque ci si trovi, tralasciando il resto.
Si lavora? Si lavora di brutto, senza nessun tipo di distrazione.
Mai approssimativi o pressapochisti, e gentili, infinitamente.
Del mio viaggio, più dei ciliegi meravigliosi, più dei templi unici al mondo, più del cibo divino, ricorderò loro: gli scolaretti in divisa con le frangette spioventi, i negozi di manga affollatissimi, gli inchini, i sorrisi, le scure, i ringraziamenti, e la gentilezza, quella che noi davvero non conosciamo più.

2 Comments
  • carla tanitzergh del ciotto

    22 aprile 2017 at 14:46

    Valentina… come sempre mi emozioni. Bello leggere del tuo sguardo lieve sul mondo